martedì 3 giugno 2008

FIGURE RETORICHE


MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
Eugenio montale


Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano
di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Rima (assorto\orto - sterpi\serpi): in questo caso l’identità fonica fra le ultime sillabe dei vari versi è usata per metterli in correlazione: nei primi due si descrive la situazione da un punto di vista più “geografico”, negli altri due si comincia a descrivere la serie di azioni umane che danno lo scheletro alla poesia
Enjamblemente (palpitare lontano): altro modo di legare due versi in maniera forte in modo che l’uno non abbia senso senza l’altro
Onomatopea (scricchi): la parola è la trascrizione del verso della cicala
Allitterazione (tremuli\mentre - cicale\calvi\picchi): la ripetizione delle sillabe “tre” ricrea all’interno del verso l’idea del verso della cicala senza dover ricorrere all’uso di una onomatopea o doverlo descrivere
Iperbato (com'è tutta la vita una muraglia): in questo caso si sposta la parola “muraglia” in fondo alla coppia di versi per evidenziare “vita” e correlarla con “travaglio” e per correlare “muraglia con “seguitare”
Chiasmo(abbaglia\meraviglia\mueaglia\bottiglia): in questo caso la posizione chiastica di queste rime (interrotta dall’ “aglio” assonante di travaglio) dà ritmo e musicalità e collega fra loro vari termini


IL LAMPO
G. Pascoli

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.

Enumerazione (ansante\livida\in sussulto): l’uso di questa figura retorica permette in un unico verso di descrivere sinteticamente com’era la terra durante il temporale, evidenziandone con l’uso di vocaboli simili ma lievemente differenti i vari aspetti e le varie sfumature
Climax (ingombro\tragico\disfatto): in questo caso l’uso del climax aggiunge agli effetti della enumerazione un impressione di progressività, anche perché si passa dalla descrizione estetica del cielo a quella più metaforica
Ossimoro (tacito tumulto): viene usato non solo con lo stesso scopo della antitesi accelerata, ma anche per esplicitare che la scena caotica del movimento delle nubi è in realtà silenziosa
Antitesi (apparì sparì): la contrapposizione consecutiva dei due verbi opposti “apparire” e “sparire” nemmeno interrotta dalla punteggiatura dà l’idea della repentinità degli avvenimenti: il lettore quasi non fa in tempo ad accorgersi dell’apparizione che gli viene segnalata la scomparsa
Similitudine (come un occhio...): in questo caso preferito alla metafora perché suscita una serie di impressioni come l’idea che il poeta si stia accorgendo della somiglianza mentre scrive la poesia, in tempo reale, o la sensazione di uno sguardo sulla realtà lievemente infantile, nel senso positivo di puro e stupito, già suggerito dall’uso della ripetizione “bianca bianca”


IL SOGNO DELLA VERGINE V
Giovanni Pascoli

Il lume inquieto ora salta
guizzando, ora crepita e scende:
s'è spento. Quiete più alta.
Nell'ombra già rara, già scialba
traverso le immobili tende
si sfuma la nebbia dell'alba.
Il fiore improvviso, non sorto
da seme, non retto da stelo...
svanito! Non nato, non morto:
svanito nell'alito chiaro
dell'alba! svanito dal cielo
notturno del sogno! - Cantarono
i galli, rabbrividì l'aria,
s'empì di scalpicci la via;
da lungi squillò solitaria
la voce dell'Avemaria.

Metafora (la fiammella salta): questo è uno dei molteplici esempi in cui essa viene utilizzata, in questo caso per descrivere in maniera sintetica il tremolio e i giochi di luce della fiammella che sta per spegnersi
Sinestesia (nell'alito charo): qui si qualifica il sostantivo “alito” (uditivo o tattile) con l’aggettivo “chiaro”, spiccatamente visivo. In questo modo con un unico sintagma si rende il chiarore, la frescura e la brezza dell’alba
Anafora (svanito): la ripetizione della parola “svanito” la evidenzia e scandisce questa parte della poesia suggerendo il disarmato stupore per ciò che è accaduto
Personificazione (il lume inquieto\rabbrividì l'aria): in questo caso si usa per creare un effetto particolare: infatti, a ben vedere, non è l’aria a rabbrividire, ma i brividi sono gli effetti dell’aria al mattino. Viene quindi attribuita all’ambiente una azione compiuta dagli uomini che lo popolano.
Sineddeoche (scalpicci): gli scalpicci indicano la presenza di uomini, o meglio, bambini













mercoledì 21 maggio 2008

LA PERDITA DELLA PIAZZA
COME INDICE DELLA PERDITA DELLA TRADIZIONE

Il termine piazza da un punto di vista tecnico indica uno spazio lastricato vuoto ben delimitato che interrompe il tessuto urbano e che si distingue dalla strada per una maggiore ampiezza e ariosità (definizione enciclopedia Laurusse).
Si tratta di un fenomeno urbanistico quasi universalmente rilevabile nelle città e nei paesi di presenti e passati di tutti i continenti e le culture, dal momento che nasce come luogo di incontro, di confronto fra persone e di decisione ed è quindi necessario qualora un gruppo di uomini decida di vivere insieme.
È un tema architettonico infatti presente dalla più remota antichità (già dal neolitico) e che attraversa la storia soprattutto europea in tutti i secoli, passando dal modello greco (agorà) a quello romano (foro) a quello medioevale. (Informazioni da Laura Bertoccini, “architettura e funzione della piazza”)
Si può quindi definire la pizza come l’indice di una convivenza umana attiva e volta ad un fine comune, l’indice della presenza di una “comunità”.
Un dato di fatto è che nell’era contemporanea ci si sta allontanando da questa tradizione millenaria.
Scrive W. Grofius: “In Messsico ero rimasto molto colpitto dall’intensa vita del cuore dei villaggi messicani […] Provai a spiegare ai miei studenti che valeva la pena di studiare questo elemento […] Ora so che rifiutarono la mia proposta perché non sapevano di cosa si trattava: non avevano mai visto una cosa simile”.
La piazza infatti sta scomparendo, perché la società non ne ha più bisogno. Ha perso la funzione di luogo dove informarsi, discutere e condividere idee con altre persone, sostituita da mezzi più comodi ed efficienti come Internet o la televisione, che però non favoriscono i rapporti umani, ma la passività (per guardare la tele non serve una posizione attiva).
Si sta smarrendo inoltre anche la funzione commerciale a causa della nascita di enormi centri commerciali che vendono di tutto, dagli alimentari all’abbigliamento, offrendo una concorrenza quasi insostenibile per i singoli negozi.
Una prova dell’allontanamento dalla piazza la si trova in periferia, dove non si costruisce sopra un impianto urbano antico e dove quindi le piazze non sono inevitabili: laddove si edifica su terreno vuoto compaiono esclusivamente slarghi agli incroci con funzione viabilistica, e nessuna piazza. Descrive la Bertolaccini le città moderne: “ spazi senza qualità si susseguono in una sequenza indifferente a qualsiasi contesto, omologano le città le une alle altre, confondono i ricordi” evidenziando un modello ben diverso da quello della “veneta piazzetta” di Penna.
Sussistono tuttavia ancora alcune piazze, anche in periferia: quelle derivate dal centro degli antichi borghi, e puntualmente frequentate dall’anzianità, e quelle legate alla Chiesa.
Questa osservazione porta a due riflessioni rilevanti. La causa profonda del fenomeno di scomparsa che sto analizzando non va ricercata esclusivamente nell’aspetto socio-economico, ma in un particolare cambiamento della popolazione. È in corso un fenomeno di disgregazione umana, osservato anche da Berlicche, di Tempi: la gente vive sola, non sente più di appartenere a niente, non ha più la necessità di sentirsi parte di una comunità che lavori per, un fine.
Questa cosa ha naturalmente ripercussioni nella struttura urbana ed in particolare nelle piazze, poiché esse sono il “palcoscenico” della comunità: “la piazza ospita le attività non programmate, spontanee, e in questo senso diventa propaggine del laboratorio culturale” riporta Dini delle parole di Renzo Piano, ma qualora si metta in crisi l’idea di comunità e di rapporto umano, la piazza perde significato.
Essa sussiste in luoghi dove il senso di unità sia ancora rilevante: vicino alle chiese, oppure nei paesi rustici o montani isolati dove la gente è legata da una tradizione comune.
Ed ecco allora la seconda riflessione: la perdita della comunità corrisponde alla perdita della tradizione e della memoria. Infatti, in una società di individui che si muovono per se stessi non c’è bisogno di tradizione, che viene abbandonata.
La scomparsa delle piazze è di conseguenza anche l’indice di una perdita della memoria, ed è inutile oltre che sbagliato pensare di poterla recuperare agendo solo sull’impianto urbano; ha senso invece dare credito e aiutare quelle realtà che tengono in vita i valori su cui andrebbe fondata la società, nel nostro caso europea, favorendo il senso comunitario.

venerdì 28 marzo 2008














Cesare pavese
PAESI TUOI

TEMA: dopo un breve riassunto, motiva il disagio esistenziale di Berto

In questo breve romanzo Pavese descrive alcuni giorni della vita di Berto, macchinista torinese, che è protagonista e io narrante della storia.
Egli nella prigione in cui era stato rinchiuso per aver incidentalmente investito un ciclista conosce un goffo contadino di nome Talino.
Appena vengono liberati, Berto, senza casa e senza lavoro, si fa convincere dal compagno a seguirlo in campagna nel suo paese, Monticello, dove avrebbe potuto occuparsi delle macchine agricole sotto modesto compenso. Dopo qualche tentennamento e dopo aver passato la notte dalla donna di un suo vecchio amico, finalmente si decide a partire.
Giunti a destinazione, il protagonista è da subito ammaliato e al contempo spaventato dalla vita di campagna, dalla sua sensualità, dal suo sapore brusco e primitivo, dai suoi ritmi lenti e scanditi; in parte preso dal clima e dalla atmosfera del luogo, in parte estraneo e sfuggente, si innamora di una delle sorelle di Talino, Gisella.
Ben presto però si scontra con gli aspetti più brutali e nascosti della vita rustica e della famiglia dalla quale è stato accolto: il suo compagno si rivela selvaggio e istintivo, quasi pazzo, al punto da avere avuto rapporti incestuosi con Gisella e da aver bruciato la casa ad un rivale (motivo per cui era stato arrestato).
Dal momento in cui Berto viene a conoscenza di queste cose, la situazione comincia a precipitare, si moltiplicano i litigi, i disagi e le incomprensioni fra tutti i personaggi fino a sfociare nell’ultimo drammatico atto della storia, nel quale Talino, folle di gelosia per l’amore di Berto con la sorella, la uccide barbaramente con un forcone.
Il libro si conclude nel pianto e nel sangue con l’agonia di Gisella, l’arresto dell’assassino e la fuga del protagonista dalla bestialità di un mondo che lo sbigottisce.

La prima impressione nella lettura del romanzo è che l’autore vi scarichi molta della propria angoscia e del proprio disagio, concentrandoli nella figura di Berto.
Questo modesto personaggio, di origini cittadine, è all’inizio della storia un uomo evidentemente solo, privato di tutto se non della libertà personale, in cerca vagamente di qualcosa che lo soddisfi, che non ha trovato nella vita sfrenata della città e che prova a trovare nella campagna.
Giunge a Ponticello senza portarsi dietro niente dalla sua esistenza passata, a parte un certo scetticismo e qualche schema mentale; sembra un uomo smarrito, che vaghi cercando a tentoni qualcosa per cui vivere, un punto a cui appartenere, e viene continuamente disilluso e frustrato dalla realtà che incontra.
La sua vita è quindi ridotta alla mera sopravvivenza e alla ricerca di un po’ di divertimento, offertogli dalle donne, dal gioco o dal fumo.
Egli, così come l’autore stesso confessava di avere, ha una grande difficoltà a comunicare e ad instaurare con altri uomini un rapporto che non sia epidermico. Non trova nessuno che provi o manifesti il suo stesso disagio ed è quindi tremendamente solo.
Inizia dunque il romanzo vero e proprio con un cambiamento: il protagonista si imbatte in qualcosa di nuovo e di strano, dal quale, al di là dello scetticismo e del timore iniziali, è immediatamente colpito e affascinato, la vita campagnola.
Allora l’esigenza si riaccende e ricomincia la ricerca, e Berto vive, si innamora, si fa prendere da quella realtà primitiva e originale che è la vita contadina, ripercorrendo il tentativo di Pavese stesso, che nelle proprie umili origini aveva cercato ciò che né gli studi né la vita di scrittore gli avevano offerto.
Purtroppo, proprio come il proprio autore, il macchinista viene deluso e disilluso ancora una volta. Egli si accorge che la vita spensierata che vede è solo una illusione fondata sul vivere istintivamente, che il rapporto con Gisella non lo soddisfa, anche perché, come tutto ciò che è umano, presto o tardi finisce. Si scopre incapace di amare, tanto che alla morte di lei, non prova un vero umano dolore, ma solo una istintiva paura della fatalità, una tristezza e un rimpianto della allegria perduta.
Berto esce dalla vicenda ancora più scettico e deluso di come vi era entrato, senza aver trovato niente, fuggendo dalla follia campagnola, in cerca di un punto di interesse per la propria vita.
Pavese ci da solo uno spaccato dell’esistenza di quest’uomo, documentando attraverso di esso il proprio disagio esistenziale, la propria disperata ricerca. Egli in vita non troverà mai ciò che bramava, cosa che lo porterà poi al suicidio, e il macchinista torinese è intriso dello sgomento di questa infruttuosa caccia al significato.

lunedì 17 marzo 2008

TEMA ARGOMENTATIVO
INTERCETTAZIONIE PROCESSI MEDIATICI

L’intercettazione telefonica è un metodo di ricerca della prova tipico dei processi penali, disciplinato dall’articolo 266 del codice di procedura penale.

Esso consiste nella registrazione di dialoghi telefonici, informatici o fra presenti tramite l’uso di una adeguata tecnologia o il consulto degli archivi che per legge devono essere tenuti dalle industrie telefoniche.

Il fenomeno che sempre più spesso si verifica sulle pagine dei nostri giornali è che vengano pubblicati i testi integrali di intercettazioni a personaggi famosi che, nella maggior parte dei casi suscitano lo scandalo popolare. Compaiono talvolta sui quotidiani “articoli che riportano le conversazioni private di personaggi noti e meno noti su fatti che definire ‘di interesse pubblico’ è un eufemismo […] con testate che pubblicano persino i numeri di cellulare dei soggetti in questione” osserva Emanuele Boffi di Tempi.

Si tratta dunque di una ingiustizia e di un procedimento barbaro sotto gli occhi di tutti, al punto che “sono meno scandalose le intercettazioni del modo con cui ci vengono mostrate” come osserva sempre Boffi, “eppure nessuno sembra prendersela troppo”.

È a questo punto lecito chiedersi quali siano le cause di questo fenomeno, perché ogni giorno si possano leggere in giro i vari “Lillo sei un coglione”, “guarda che gnocca”, “facci sognare” e “abbiamo una banca” di politici e dirigenti, dove sia il diritto alla privacy in questa dinamica mediatica.

Innanzitutto bisogna andare a vedere cosa effettivamente dice la legge a riguardo, ovvero in questo caso il codice di procedura penale. L’articolo 266 esplicita i limiti di ammissibilità di una intercettazione: “delitti non colposi per i quali sia prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore a 5 anni, delitti contro la pubblica amministrazione, concernenti sostanze psicotrope o stupefacenti, armi o sostanze esplosive, contrabbando, ingiuria, minaccia, usura ecc.” (non quindi casi di giustizia sportiva, come quello ampiamente “intercettato” di Moggi). Gli articoli 114 e 115 invece stabiliscono le regole di diffusione degli atti giuridici (come la trascrizione delle intercettazioni): “e vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o altro mezzo di diffusione, degli atti giuridici coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto; è vietata la pubblicazione anche parziale degli atti non più coperti dal segreto fino alla conclusione dell’udienza preliminare”.

Un illecito si è verificato, dunque, senza dubbio, poiché ad esempio i dialoghi di Moggi sono comparsi sui giornali molto prima dell’ inizio del processo, e questo fatto è avvenuto e continua ad avvenire con numerose altre intercettazioni.

Viene spontaneo chiedersi per quale motivo allora non vengano processati e puniti i colpevoli di questi crimini più che manifesti.

La risposta ci è offerta da Castelli, ex ministro della giustizia: “oggi trasmettere e pubblicare notizie coperte dal segreto istruttorio è un crimine solo per il pubblico ufficiale che parla troppo. L’editore al massimo paga una multa di pochi euro (da 50 a 300). In più, siccome il PM responsabile della fuga di notizie non si trova mai, di fatto restano tutti impuniti”.

Ecco dunque il problema: una effettiva deficienza legislativa che però affonda le radici in altre questioni ben più problematiche. Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, dice in una intervista: “l’uso giornalistico delle intercettazioni è diventato ormai una abitudine per i giornali. Lo fanno tutti. Perché lo fanno? Per ragioni strettamente commerciali, per vendere di più. Non è un diritto di cronaca, è un diritto di vendita”, opinione condivisa da molti, come ad esempio Castelli.

Il vero motivo per cui si pubblicano le intercettazioni sembra quindi essere commerciale e non informativo. Osserva Laura Borselli, di Tempi: “è un fenomeno sempre più diffuso: il giornalismo si è adeguato ai gusti del pubblico, rendendosi sensibile ad argomenti di gossip e società”.

Le ragioni che ci permettono di contestare questo fenomeno, che in fondo fa felici lettori e giornalisti, può essere presentato come una crociata per ripulire la politica dalla “sozzura” e oltretutto è a scapito di poche persone che il giudizio mediatico ha già reso antipatiche e disprezzate, sono molteplici.

Innanzitutto costituiscono un mezzo politico efficace e pericoloso per eliminare personaggi scomodi, perché le intercettazioni e soprattutto i processi mediatici che le accompagnano forniscono informazioni spesso parziali e comunque non verificate, in quanto offerte prima del processo e basate su di un criterio che assomiglia molto alla simpatia, ma condizionano pesantemente l’opinione pubblica. Come osserva Simone Lucerti, PIM del tribunale di Milano, “l’udienza in tribunale […] termina con un giudizio espresso da un giudice professionista dall’esito del contraddittorio fra accusa e difesa; nel processo mediatico invece, ciò che viene affermato è frutto solo di accertamenti provvisori d sovente unilaterali, ma ha la singolare potenzialità di apparire come veritiero e definitivo”. Per questo motivo il metodo mediatico non è efficace come strumento informativo, perché spesso non riporta il vero.

In secondo luogo, la pubblicazione di intercettazioni è una “effettiva violazione della privacy e quindi dei diritti inalienabili della persona quando le informazioni riservate non sono direttamente coinvolte nel processo (come avviene nella maggior parte dei casi) e non riguardano quindi crimini o illeciti”, come dichiara Mastella, ministro della giustizia, in una intervista.

Per combattere questo fenomeno, il ministro stesso ha varato un progetto di legge che, dopo essere stato approvato alla camera, è da alcuni mesi fermo in senato. “la nuova legge” spiega, “da un lato aggrava le sanzioni per chi infrange il divieto di pubblicazione: arresto fino a 30 giorni o in alternativa ammenda da 10.000 a 100.000 euro; dall’altro allarga il novero degli atti non più pubblicabili”.

In opposizione a queste motivazioni e provvedimenti, molti giornalisti e politici come Marco Travaglio dell’Unità o il ministro Di Pietro, si sono pronunciati a favore dell’uso mediatico delle intercettazioni, sottolineando come posizioni contro di esse rischino di tutelare interessi e reputazioni di politici e personaggi famosi più che la privacy dei cittadini. Lo stesso Travaglio scrive sull’Unità: “questa è una legge [la legge di Mastella] che se passerà pure al senato impedirà ai giornalisti di raccontare – e ai cittadini di conoscere – le indagini della magistratura e in certi casi i processi di primo e secondo grado. Non e una legge contro i giornalisti, è una legge contro i cittadini ansiosi di essere informati sugli scandali di potere…” evidenziando una problematica non irrilevante.

Dall’analisi della questione effettuata in queste pagine, risulta evidente che ogni provvedimento è inutile se applicato perdendo di vista il punto fondamentale, dall’una e dall’altra parte. Se infatti lo scopo del giornalismo è informativo, accanirsi su alcuni soggetti e dare per vere informazioni non verificate costituisce una trasgressione ai propri principi; d’altro canto un provvedimento di legge che si imponga di difendere in modo ferreo la privacy dei cittadini dimenticandosi del motivo per cui va protetta (è un diritto inalienabile dell’uomo al pari della libertà e dell’uguaglianza), diventa uno strumento efficace per nascondere scandali e crimini dall’opinione pubblica.

Sarebbe quindi interessante discutere dei limiti della privacy, in modo da trovare il giusto compromesso fra la riservatezza dovuta alla gente e le verità che essa ha diritto di sapere, anche a scapito della “reputazione” del soggetto in questione.